Così elencava l’anziana servitrice: “Le doti di cui ti devi munire sono ubbidienza, applicazione e pazienza”. Tre talenti per anime belle, figlie devote e brave fanciulle.
Purtroppo io non facevo parte della schiera e quindi,
del tessere, proprio non ne volevo sapere.
Ora che mi guardo indietro a distanza di trent’anni,
le riconosco che tessere procura benessere e compimento.
Mio padre Icario, nipote di Perseo, bloccato dalla
tradizione della sua progenie, che gli impediva qualsiasi azione che non fosse
di gradimento agli dei e ai suoi antenati, aveva consultato Peribea, madre
severa e distante e, di comune accordo, mi avevano costretto ad assecondare la
nutrice, chinare il capo e sottomettermi, pena l’esilio. Dovevo essere allevata
come una brava figlia ubbidiente per essere data in sposa al re di Itaca, quell’isola
maledetta, arida e pietrosa che già odiavo.
La mia stirpe proveniva da Sparta, come potevo umiliarmi
a sposare un fetido pastore di un’isola piccolissima sperduta nello Ionio?
Sicuramente meritavo di più.
Memore però di aver rischiato già una volta la vita
per i capricci di mio padre, decisi di continuare a galleggiare come attestava
il mio nome.
Imparai pertanto a tessere: torcendo e intrecciando
fili, annodando, legando e pettinando e divenni una vera esperta. Mi chiedevo
sempre a cosa potesse servire tutto questo, io che ero destinata a fare la
regina, di un’isola modesta e selvaggia, ma pur sempre regina.
Adattandomi alla situazione, passai dal
padre-padrone al marito-padrone: Odisseo, ma questi, fortunatamente, si rivelò
migliore di quanto pensassi.
Le nostre notti, infatti, furono felici, ma, per
colpa di quella sciocca di mia cugina Elena, ben presto dovette partire per la
guerra, lasciandomi un figlioletto e sotto la tutela dei suoi due genitori Anticlea
e Laerte.
Dieci anni durò quello scempio e per dieci anni
aspettai fedele e innamorata. Seguii la tradizione e resistetti e fui premiata
perché la guerra, dopo lutti, sciagure e distruzioni, finalmente terminò e i re
Achei tornarono in patria. Tutti, meno uno: Odisseo.
A questo punto però, non ero disposta ad ascoltare
Laerte che mi consigliava di risposarmi e nemmeno a scegliere tra quella massa
di pretendenti che non volevano me, ma i tesori della reggia.
Tutto quel tessere a qualcosa sarebbe finalmente
servito.
Inviai Filezio, il più fidato e il più sveglio dei
guardiani a fare il giro delle isole dell’Eptaneso, con i campioni delle tele
filate, quelle con i colori più sgargianti, quelle con i tessuti più leggeri
intrecciati magistralmente, quelle con i disegni vivaci delle anatre – il mio
nome - riprese dai disegni degli Egizi.
Le tele piacquero agli abitanti delle isole e il
successo mi arrise.
Usai parte del tesoro di Odisseo per l’acquisto di
nuovi telai. Organizzai le ancelle che istruirono tutte le donne dell’isola
nella tessitura. Proposi loro il prestito del telaio e una piccola rendita per
il lavoro eseguito e nel giro di cinque anni il telaio sarebbe diventato di
loro proprietà.
L’impresa era avviata e mi sentivo finalmente
appagata e soddisfatta.
Intanto mio figlio Telemaco era diventato uomo e cominciava
ad aiutarmi nella diffusione e nella presentazione dei tessuti, incrementandone
la vendita. Non pensavo più a Odisseo e alle voci che mi erano giunte di una
sua ormai lunga permanenza volontaria presso una certa ninfa. A me non
importava e non m’importa tuttora, anzi, se tornasse adesso, sarebbe un
disastro per la mia attività, accamperebbe pretese: lui è il re, ho usato parte
del suo tesoro ma, finché non torna, comando io, Penelope, la regina.
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