venerdì 2 maggio 2014

La tela

La mia nutrice lo enunciava tutti i giorni, ripetute volte, mattino pomeriggio e sera: “Tessere è molto faticoso, ma può dare enormi soddisfazioni se ti applichi con pazienza e voglia di migliorare”.

Così elencava l’anziana servitrice: “Le doti di cui ti devi munire sono ubbidienza, applicazione e pazienza”. Tre talenti per anime belle, figlie devote e brave fanciulle.

Purtroppo io non facevo parte della schiera e quindi, del tessere, proprio non ne volevo sapere.

Ora che mi guardo indietro a distanza di trent’anni, le riconosco che tessere procura benessere e compimento.

Mio padre Icario, nipote di Perseo, bloccato dalla tradizione della sua progenie, che gli impediva qualsiasi azione che non fosse di gradimento agli dei e ai suoi antenati, aveva consultato Peribea, madre severa e distante e, di comune accordo, mi avevano costretto ad assecondare la nutrice, chinare il capo e sottomettermi, pena l’esilio. Dovevo essere allevata come una brava figlia ubbidiente per essere data in sposa al re di Itaca, quell’isola maledetta, arida e pietrosa che già odiavo.

La mia stirpe proveniva da Sparta, come potevo umiliarmi a sposare un fetido pastore di un’isola piccolissima sperduta nello Ionio?

Sicuramente meritavo di più.

Memore però di aver rischiato già una volta la vita per i capricci di mio padre, decisi di continuare a galleggiare come attestava il mio nome.

Imparai pertanto a tessere: torcendo e intrecciando fili, annodando, legando e pettinando e divenni una vera esperta. Mi chiedevo sempre a cosa potesse servire tutto questo, io che ero destinata a fare la regina, di un’isola modesta e selvaggia, ma pur sempre regina.

Adattandomi alla situazione, passai dal padre-padrone al marito-padrone: Odisseo, ma questi, fortunatamente, si rivelò migliore di quanto pensassi.

Le nostre notti, infatti, furono felici, ma, per colpa di quella sciocca di mia cugina Elena, ben presto dovette partire per la guerra, lasciandomi un figlioletto e sotto la tutela dei suoi due genitori Anticlea e Laerte.

Dieci anni durò quello scempio e per dieci anni aspettai fedele e innamorata. Seguii la tradizione e resistetti e fui premiata perché la guerra, dopo lutti, sciagure e distruzioni, finalmente terminò e i re Achei tornarono in patria. Tutti, meno uno: Odisseo.

A questo punto però, non ero disposta ad ascoltare Laerte che mi consigliava di risposarmi e nemmeno a scegliere tra quella massa di pretendenti che non volevano me, ma i tesori della reggia.

Tutto quel tessere a qualcosa sarebbe finalmente servito.

Inviai Filezio, il più fidato e il più sveglio dei guardiani a fare il giro delle isole dell’Eptaneso, con i campioni delle tele filate, quelle con i colori più sgargianti, quelle con i tessuti più leggeri intrecciati magistralmente, quelle con i disegni vivaci delle anatre – il mio nome - riprese dai disegni degli Egizi.

Le tele piacquero agli abitanti delle isole e il successo mi arrise.

Usai parte del tesoro di Odisseo per l’acquisto di nuovi telai. Organizzai le ancelle che istruirono tutte le donne dell’isola nella tessitura. Proposi loro il prestito del telaio e una piccola rendita per il lavoro eseguito e nel giro di cinque anni il telaio sarebbe diventato di loro proprietà.

L’impresa era avviata e mi sentivo finalmente appagata e soddisfatta.

Intanto mio figlio Telemaco era diventato uomo e cominciava ad aiutarmi nella diffusione e nella presentazione dei tessuti, incrementandone la vendita. Non pensavo più a Odisseo e alle voci che mi erano giunte di una sua ormai lunga permanenza volontaria presso una certa ninfa. A me non importava e non m’importa tuttora, anzi, se tornasse adesso, sarebbe un disastro per la mia attività, accamperebbe pretese: lui è il re, ho usato parte del suo tesoro ma, finché non torna, comando io, Penelope, la regina.

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