martedì 29 gennaio 2013

L'anno che verrà

Quando avevo nove anni, a causa di problemi in famiglia, fui mandato in un collegio gestito dai preti, dove rimasi per quattro anni. E la cosa non fu assolutamente un trauma per me, perché mi trovavo in un'età in cui stavo a guardare che cosa sarebbe successo e non ero per niente preoccupato per i cambiamenti che avevo sperimentato fino a quel momento. In un certo qual modo li avevo subiti senza rendermi conto di quello che era successo. A quei tempi facevo così: stavo a guardare queste cose con un certo interesse o curiosità.

Non ero spaventato quindi di ritrovarmi in un mondo completamente diverso dal mio, anche perché erano i primi anni del dopoguerra, periodo in cui i cambiamenti erano all'ordine del giorno. Ed ero aperto a tutte le novità che giorno dopo giorno si presentavano per coloro che vivevano in comunità, come per esempio mangiare insieme a tanti altri bambini, dormire in grandi camerate o eseguire senza eccezione i compiti assegnati quotidianamente e scanditi da orari fissi.
Una delle cose che mi colpirono accadde al termine della messa a cui si doveva partecipare ogni mattina prima di far colazione, quando il prete ci fece un breve discorso sulla prossima fine dell'anno e ci disse: “Ragazzi, sapete che è nostra consuetudine fare un esame dell'anno che sta per finire ed è molto importante formulare dei buoni propositi per l'anno nuovo. Li facciamo anche noi che siamo adulti, anzi io li faccio da almeno trent'anni e mi sono accorto che non hanno alcuna conseguenza negativa. Anzi.”
Per me era una novità assoluta e non riuscivo a capire bene che cosa dovevo fare. Cavolo, che cosa avevo fatto di sbagliato nell'anno appena trascorso, in gran parte passato in famiglia? Forse non ero stato troppo ubbidiente ed a scuola non riuscivo a star zitto troppo a lungo, ma da quando ero arrivato al collegio mi comportavo meglio, perché osservavo quello che facevano gli altri. Inoltre ero stato anche un po' troppo curioso riguardo alle ragazze, ma qui non ce n'era nemmeno una, quindi un problema in meno.
Così, nei giorni successivi, mi misi con impegno a pensare a quello che avrei fatto nell'anno successivo, e mi veniva da pensare: “Ma che cosa devo fare, quando tutti i giorni e tutte le ore devo fare quello che mi dicono loro”. Il “loro” riguardava i superiori che ti controllavano dalla mattina, quando ti svegliavano fino alla sera quando era ora di andare a letto. Decidevano loro quando andare a scuola, quando mangiare, quando studiare, quando fare i compiti eccetera, eccetera. E quando mi accorgevo che il mio compagno di banco scriveva qualcosa che non aveva a che fare con i compiti, cercavo di leggerlo per prenderlo come esempio.
Mi facevo anche dare dei suggerimenti da altri con più esperienza di me e con cui avevo più confidenza. Ed alla fine capii che cosa ci si aspettava da me: dovevo semplicemente decidere quali cose non dovevo fare – in base alle regole del collegio, naturalmente – piuttosto che le cose che avrei voluto fare io nel nuovo anno. Allora tutto fu facile per uniformarmi a questa consuetudine che consisteva nell'elencare certi difetti che non erano visti di buon occhio dai superiori. Anche se poi me ne dimenticavo il giorno dopo averli scritti. Non perché fosse difficile, ma perché non me ne importava proprio. E poi, se mi fossi impegnato a sistemare queste cose, alla fine dell'anno successivo non avrei saputo proprio che cosa scrivere.
Perché mi è venuto in mente questo ricordo di quasi sessant'anni fa? Perché l'anno che verrà si sta avvicinando molto velocemente, e ricordando il lontano tempo del collegio, penso a quali buoni propositi fare per l'anno nuovo.
Solo che adesso, dopo sessant'anni, le cose sono cambiate un bel po' e nessuno mi ha obbligato a farlo. In effetti non ho nemmeno aspettato la fine dell'anno per decidere quello che succederà nell'anno nuovo, ma l'ho già fatto un po' di tempo fa, accorgendomi che c'era effettivamente ancora qualcosa da cambiare. Non tanto riguardo alle cose da fare o non fare, ma soprattutto al modo di farlo.
Penso che sia abbastanza chiaro che adesso gli impegni che voglio propormi per l'anno nuovo hanno a che fare con cose che decido io. Vorrei ben vedere, se dopo tutto questo tempo ho ancora bisogno che siano gli altri a dirmelo. Vogliamo scherzare?
Ecco questo è un bel cambiamento: dal fatto di dovere fare qualcosa al fatto di volerla fare.
E poi, negli ultimi tempi mi ero accorto che non riuscivo a fare bene quello che volevo, nonostante ce la mettessi tutta per volerlo fare. Si vede che lì c'era ancora qualcosa che mancava, proprio perché mi ero reso conto che non basta voler qualcosa per ottenerlo.
Pian pianino ci ho lavorato su e sono arrivato alla conclusione. Perbacco, non mi ero preso completamente tutta la responsabilità per il settore di attività in cui operavo.
Era proprio ora di cambiare: toccava a me prendermi la responsabilità di quello che sarebbe successo nell'anno nuovo, almeno per quello che mi riguardava, senza tirar fuori delle scuse e allora sicuramente sarei riuscito a fare tutto quello che volevo. E' abbastanza facile, quando non si riesce a fare qualcosa di buono o d'importante, cercare di addossare la responsabilità al primo che ti viene in mente. Oppure al fatto che era una cosa veramente impossibile.
Eh no, così non funziona. Ero io che volevo assumermi la responsabilità di un eventuale insuccesso. Ero io che avrei deciso dove mettere i limiti, non lasciare che i limiti li mettesse qualcun altro o che fossero le circostanze a farlo.

Oreste Zinaghi, dicembre 2012

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