Quando avevo nove anni, a causa di problemi in famiglia, fui mandato in un
collegio gestito dai preti, dove rimasi per quattro anni. E la cosa non fu
assolutamente un trauma per me, perché mi trovavo in un'età in cui stavo a
guardare che cosa sarebbe successo e non ero per niente preoccupato per i
cambiamenti che avevo sperimentato fino a quel momento. In un certo qual modo
li avevo subiti senza rendermi conto di quello che era successo. A quei tempi
facevo così: stavo a guardare queste cose con un certo interesse o curiosità.
Non ero spaventato quindi di ritrovarmi in un mondo completamente diverso
dal mio, anche perché erano i primi anni del dopoguerra, periodo in cui i
cambiamenti erano all'ordine del giorno. Ed ero aperto a tutte le novità che
giorno dopo giorno si presentavano per coloro che vivevano in comunità, come
per esempio mangiare insieme a tanti altri bambini, dormire in grandi camerate
o eseguire senza eccezione i compiti assegnati quotidianamente e scanditi da
orari fissi.
Una delle cose che mi colpirono accadde al termine della messa a cui si
doveva partecipare ogni mattina prima di far colazione, quando il prete ci fece
un breve discorso sulla prossima fine dell'anno e ci disse: “Ragazzi, sapete
che è nostra consuetudine fare un esame dell'anno che sta per finire ed è molto
importante formulare dei buoni propositi per l'anno nuovo. Li facciamo anche
noi che siamo adulti, anzi io li faccio da almeno trent'anni e mi sono accorto
che non hanno alcuna conseguenza negativa. Anzi.”
Per me era una novità assoluta e non riuscivo a capire bene che cosa dovevo
fare. Cavolo, che cosa avevo fatto di sbagliato nell'anno appena trascorso, in
gran parte passato in famiglia? Forse non ero stato troppo ubbidiente ed a
scuola non riuscivo a star zitto troppo a lungo, ma da quando ero arrivato al
collegio mi comportavo meglio, perché osservavo quello che facevano gli altri.
Inoltre ero stato anche un po' troppo curioso riguardo alle ragazze, ma qui non
ce n'era nemmeno una, quindi un problema in meno.
Così, nei giorni successivi, mi misi con impegno a pensare a quello che
avrei fatto nell'anno successivo, e mi veniva da pensare: “Ma che cosa devo fare, quando tutti i giorni e tutte le ore devo fare
quello che mi dicono loro”. Il “loro” riguardava i superiori che ti
controllavano dalla mattina, quando ti svegliavano fino alla sera quando era
ora di andare a letto. Decidevano loro quando andare a scuola, quando mangiare,
quando studiare, quando fare i compiti eccetera, eccetera. E quando mi
accorgevo che il mio compagno di banco scriveva qualcosa che non aveva a che
fare con i compiti, cercavo di leggerlo per prenderlo come esempio.
Mi facevo anche dare dei suggerimenti da altri con più esperienza di me e
con cui avevo più confidenza. Ed alla fine capii che cosa ci si aspettava da
me: dovevo semplicemente decidere quali cose non dovevo fare – in base alle
regole del collegio, naturalmente – piuttosto che le cose che avrei voluto fare
io nel nuovo anno. Allora tutto fu facile per uniformarmi a questa consuetudine
che consisteva nell'elencare certi difetti che non erano visti di buon occhio
dai superiori. Anche se poi me ne dimenticavo il giorno dopo averli scritti.
Non perché fosse difficile, ma perché non me ne importava proprio. E poi, se mi
fossi impegnato a sistemare queste cose, alla fine dell'anno successivo non
avrei saputo proprio che cosa scrivere.
Perché mi è venuto in mente questo ricordo di quasi sessant'anni fa? Perché
l'anno che verrà si sta avvicinando molto velocemente, e ricordando il lontano
tempo del collegio, penso a quali buoni propositi fare per l'anno nuovo.
Solo che adesso, dopo sessant'anni, le cose sono cambiate un bel po' e
nessuno mi ha obbligato a farlo. In effetti non ho nemmeno aspettato la fine
dell'anno per decidere quello che succederà nell'anno nuovo, ma l'ho già fatto
un po' di tempo fa, accorgendomi che c'era effettivamente ancora qualcosa da
cambiare. Non tanto riguardo alle cose da fare o non fare, ma soprattutto al modo di farlo.
Penso che sia abbastanza chiaro che adesso gli impegni che voglio propormi
per l'anno nuovo hanno a che fare con cose che decido io. Vorrei ben vedere, se
dopo tutto questo tempo ho ancora bisogno che siano gli altri a dirmelo.
Vogliamo scherzare?
Ecco questo è un bel cambiamento: dal fatto di dovere fare qualcosa al fatto di volerla fare.
E poi, negli ultimi tempi mi ero accorto che non riuscivo a fare bene quello
che volevo, nonostante ce la mettessi tutta per volerlo fare. Si vede che lì
c'era ancora qualcosa che mancava, proprio perché mi ero reso conto che non
basta voler qualcosa per ottenerlo.
Pian pianino ci ho lavorato su e sono arrivato alla conclusione. Perbacco, non
mi ero preso completamente tutta la responsabilità per il settore di attività
in cui operavo.
Era proprio ora di cambiare: toccava a me prendermi la responsabilità di
quello che sarebbe successo nell'anno nuovo, almeno per quello che mi
riguardava, senza tirar fuori delle scuse e allora sicuramente sarei riuscito a
fare tutto quello che volevo. E' abbastanza facile, quando non si riesce a fare
qualcosa di buono o d'importante, cercare di addossare la responsabilità al
primo che ti viene in mente. Oppure al fatto che era una cosa veramente
impossibile.
Eh no, così non funziona. Ero io che volevo assumermi la responsabilità di
un eventuale insuccesso. Ero io che avrei deciso dove mettere i limiti, non
lasciare che i limiti li mettesse qualcun altro o che fossero le circostanze a
farlo.
Oreste Zinaghi, dicembre 2012
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