L’enorme giostra carica di lustrini avanzava con andatura stanca, in precario equilibrio, come una statua della madonna portata in processione, talmente vicina alla costa che potevo quasi vederli quei saloni inondati di luce, sentire il brusio e le risa dei commensali, lasciarmi trasportare dalle scie musicali che echeggiavano tra gli scogli. Sembrava voler rendere omaggio a noi abitanti, come a dire: “Sveglia isola sonnacchiosa, che fate tutti in silenzio al buio, vi portiamo un po’ di festa, via!”
La festa ce la fecero
davvero.
Seguii con lo sguardo la
nave che si dirigeva verso il mare aperto. Stavo per rimontare in sella quando qualcosa
attrasse la mia attenzione: anziché allontanarsi, la nave sembrò invertire la
rotta e tornare verso il porto. Che strano effetto ottico, pensai. Poi,
all’improvviso, quasi scomparve come un vascello fantasma inghiottito dalla
nebbia, un’enorme macchia scura aveva preso il suo posto e si ingrandiva ogni
secondo di più. Udii uno schianto seguito da un tonfo sordo e pochi secondi
dopo la sagoma grottesca si inclinò su un lato immergendosi lentamente nello specchio
d’acqua della baia del porto: la nave stava affondando. Restai a fissare la
scena ipnotizzato da quanto stava accadendo e incapace di muovermi per lo spavento.
Tentai di gridare ma non riuscii a emettere suoni. Credetti di essere vittima
di un’allucinazione. Mi ripresi con uno scatto, afferrai la bicicletta e
pedalai come un forsennato verso casa. Mia madre mi venne incontro pallida, mio
padre era già corso verso il porto, il paese era in subbuglio, la guardia
costiera e i primi mezzi di soccorso si erano subito messi in moto.
Nelle ore che seguirono, la
TV cominciò a mandare in onda le immagini della gigantesca nave da crociera semisommersa
e appoggiata di lato sugli scogli, le prime brevi interviste rilasciate dai
superstiti, il tentativo da parte dei cronisti di ricostruire l’incidente. Non
era possibile che fossi stato testimone di un simile disastro!
Mi svegliai più volte quella
notte, un po’ per il rincorrersi delle sirene e il passaggio degli elicotteri a
bassa quota, ma più che altro per la paura mista a eccitazione che l’evento
aveva scatenato in me. Il mio sonno fu popolato da gigantesche orche marine che
si infilavano nella baia del porto per finire spiaggiate e agonizzanti sulla
battigia. La mattina seguente la radio in cucina gracchiava frammenti del
surreale naufragio, ricordo che mi fece impressione sentire il nome della mia
isola pronunciato più volte dal cronista.
Il bilancio della sciagura
si aggravava di ora in ora, reso ancora più inaccettabile dalla supposizione
che a causare il naufragio fosse stata una bravata del comandante.
La mamma mi aveva proibito
di avvicinarmi al luogo del naufragio, ma la curiosità fu più forte di me e di
ritorno dalla scuola feci un giro un po’ largo e passai nel luogo di
osservazione della sera prima. Lo spettacolo era davvero impressionante: proprio
come le orche del mio sogno, la mastodontica nave giaceva inerte su un fianco,
la pancia squarciata da uno scoglio che era rimasto incastrato nella chiglia,
scie di ruggine simili a rivoli di sangue che si riversavano in mare.
Si sprecarono fiumi di
parole nei giorni a seguire, da ogni parte del mondo qualcuno aveva da dire la
sua, ma nessuno si soffermò a osservare alcuni cambiamenti che invece io avevo
notato. A cominciare dai gabbiani, che il mattino successivo al naufragio
avevano timore ad avvicinarsi alla nave che più volte avevano accompagnato
striduli e festosi per qualche miglio godendo delle prelibate cibarie che
venivano scaricate in mare. Ora se ne stavano appollaiati sugli scogli vicini a
osservare, increduli anch’essi, lo strano spettacolo.
Forse per alleggerire in qualche
modo la gravità dell’episodio mi ero inventato un gioco in cui fantasticavo
sulla nuova vita dei pesci che avevano preso dimora nella parte immersa dello
scafo.
I pesci, evidentemente più
curiosi e coraggiosi dei gabbiani, erano accorsi a migliaia e si aggiravano tra
scaffali, poltrone, lampadari e ogni ben di Dio perlustrando gli oggetti
sconosciuti che avevano invaso il loro ambiente. Immaginavo una grossa cernia
al posto di comando e uno stuolo di dentici, occhiate e spigole affaccendati
nella sala macchine e dediti alla bassa manovalanza. Grosse aragoste avevano
assunto il ruolo di chef e capocuochi e impartivano comandi a una miriade di
gamberi e mazzancolle che, destreggiandosi in equilibrio sulla coda,
distribuivano le pietanze sui tavoli. Branchi di pesci provenienti da mari
lontani, suddivisi per colore, si muovevano in massa sincronizzati dagli orari
dei pasti e delle attività, perlustrando in lungo e in largo l’enorme
contenitore di amenità.
Di tanto in tanto, specie
dopo una mareggiata, il mare ributtava a riva qualche reperto: una sedia,
frammenti di un tabellone con il programma di una serata, una scarpa e decine
di flaconi di plastica con le etichette rese ormai illeggibili.
Nei fine settimana che seguirono,
fummo invasi da orde di strani turisti. Negozi e ristoranti riaprirono, sebbene
con riluttanza, per far fronte a quell’imprevista affluenza di clienti in un
periodo dell’anno solitamente morto. Famiglie intere si facevano fotografare
con la nave sullo sfondo, un bambino chiese per il suo compleanno una torta con
la nave adagiata e semiaffondata nella panna montata, le torrette gialle bene
in evidenza.
Un mese più tardi, mentre
ancora si cercava di recuperare il gasolio dalla pancia della nave, un violento
uragano colpì l’isola costringendo gli esperti a interrompere le operazioni, il
relitto cominciò a vacillare, si sollevò dagli scogli e con un sordo boato venne
inghiottito dalle acque, come un mostro marino che, dopo aver fatto irruzione
nel mondo degli umani, avesse deciso di tornare negli abissi.
Così come si era
materializzata quella sera, fugacemente, la città galleggiante si volatizzò trascinando
con sé quel che era rimasto di un’illusoria vita da favola.
Il mattino dopo, al posto
della nave comparve una chiazza oleosa che si allargò intorno all’isola
portando altra morte e devastazione all’ambiente già compromesso.
Per mesi tornai sul luogo del naufragio, scrutando
l'acqua alla ricerca di un segno di vita.
Ma i pesci avevano capito di avere poco da
spartire con le eccentriche invenzioni umane e, alla fine, si erano risoluti ad abbandonare il
relitto per tornare agli scogli e ai fondali e alla vita semplice e vera di
tutti i giorni.
Il racconto é chiaramente riferito alla Costa Concordia, ma, se vuoi raccontare di un fatto realmente accaduto (anche se é un racconto) devi riservare la tua inventiva ai tuoi personaggi, a una storia parallela che nasce o si incrocia con quella reale, ma, quello che é stato sotto gli occhi di tutti lo devi riportare fedelmente. Se sgarri anche in un solo particolare tutto diventa poco credibile. Almeno secondo me :-) Come al solito faccio la Rompi... del gruppo
RispondiEliminaBaci, baci, ciao!!!
Mi è piaciuta tantissimo la similitudine dei pesci che invadono la nave come se fossero sia la ciurma, sia i soliti crocieristi intruppati nelle varie attività vacanziere. Il testo scorre con ritmo. Unica pecca quella già rilevata da Anna sulla parte di cronaca che dovrebbe essere mantenuta fedele alla realtà. Questo farebbe risaltare ancora di più la visione del ragazzino.
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