Vede il piccolo cimitero in cui riposa, le lapidi sono nascoste sotto
una spessa coltre bianca, tutte tranne una. Guarda sua madre inginocchiata
davanti alla sua tomba. Sfiora la foto protetta dal vetro, spera che al giovane viso della figlia arrivi
il calore di quella carezza e libera il marmo grigio per non permettere più
alla neve di seppellirla.
Il
Mont Fallére è brutto a vederlo da
lontano, ma a quelli che si avventurano tra i suoi sentieri, che si mescolano
ai suoi colori e che si specchiano nei suoi laghi regala sensazioni
fantastiche. D’estate, a quota 3.061, Sara, c’era già arrivata. Ad aspettarla: un panorama che, a 360°, era bello da mozzare
il fiato. Il 12 gennaio del 2003 era domenica, c’era il
sole, ma la temperatura era di qualche grado sotto lo zero. È un’escursione pericolosa, se fatta
d’inverno, ma le tre guide alpine sono
tranquille e alle 9,00 del mattino, con altri dodici escursionisti esperti,
Sara comincia la salita. Ore di fatica, con gli sci ai piedi e il sudore
ghiacciato sulla fronte. Sono le 13,10
ed è a quota 2.600 metri quando, guardando in alto vede le guide già
arrivate a destinazione. Alza una racchetta, la punta verso il cielo in segno
di saluto e sorride a chi e troppo lontano per vedere l’espressione del suo
volto. Si sono divisi in tre piccoli gruppi, lei è in coda con Alessandro,
Ivonne e David. Saranno gli ultimi ad arrivare, ma questa è una gara che ognuno
ha con sé stesso e il premio lo vincono tutti. È proprio in mezzo al canalone quando sente un rumore arrivare
dall’alto, è un suono breve, sembra un motore che viene acceso e subito spento.
Si guarda intorno, il silenzio è totale adesso e il tempo sembra essersi
fermato. Quasi le dispiace riprendere ad
avanzare spezzando l’incantesimo. Ma
è quel rumore, quello simile a un motore che riparte e la slavina comincia la
sua corsa. Sopra di lei, a quota 3.000, un fronte di un centinaio di metri si è
staccato, quando raggiunge i quattro alpinisti,
la valanga si è ingrossata: la sua larghezza è di trecento metri adesso. Sara non ha
scampo!
Nella
sua mente una consapevolezza e nei suoi occhi solo un colore: il bianco.
Sommersa dalla neve rotola, urta violentemente sulle rocce che incontra sul
percorso e non si ferma se non cinquecento metri più a valle, su un pianoro nei
pressi del lago. Arrivano i soccorsi, le guide hanno assistito alla tragedia e
hanno dato l’allarme. Scendono
gli elicotteri, sguinzagliano i cani. Ci
mettono poco a trovarli, ma alle volte non è il tempo che fa la differenza. Questa, purtroppo,
è una di quelle volte. Quattro corpi senza vita salgono a
bordo degli elicotteri. Quattro nuovi angeli volano in cielo.
Sara
si bagna le ali sotto la pioggia tiepida di primavera. Vede sciogliersi il ghiaccio dei ruscelli, le
cascate riprendere vita e i prati ricoprirsi d’erba e trasformarsi in pascoli.
Guarda suo padre che, nel cortile di casa, siede con un amico sulla panchina di
pietra. Di fronte a loro il profilo dei
massicci fa da sfondo, ma la grandezza delle montagne riflessa nei loro
occhi non riesce a celare tristezza e
dolore.
“Non è stato il destino!” Sentenzia il padre
con rabbia. “Ci sono testimonianze che dicono che il gruppo voleva fermarsi, ma
le guide hanno insistito per proseguire. Sono passate per prime e… hanno fatto
come da rasoio sulla neve provocando la valanga.”
È un monologo quello dell’uomo. Non esiste rassegnazione per la perdita
di un figlio, trovare un colpevole senza
abbandonarsi alla semplicità del fato è una necessità. Lo capisce l’amico e
ascolta in silenzio.
Sara
si scalda le ali sotto il sole d’estate. Vede gli stambecchi sulla cresta; aspettano la sera per andare ad abbeverarsi sulle
sponde del lago Fallére. Gli animali sanno che il gruppo di escursionisti in
marcia, per allora, sarà già tornato sui suoi passi. Una
guida alpina li precede. Lei la riconosce e la vede abbassare gli occhi quando
si ritrova vicina al luogo dell’incidente. Guarda nella sua mente. Sollievo e
rimorso combattono come pugili in uno stadio senza pubblico. Quel giorno il
bollettino valanghe, su una scala da uno a cinque, segnalava rischio tre. Forse
non sarebbero dovuti partire, ma le condizioni della neve sembravano buone.
Forse è stato superficiale, ma conosce bene quelle montagne. Un’ infinita
sequenza di forse e di ma, cicatrici sul cuore.
Sbatte
le ali nel folto del bosco e un tappeto di foglie autunnali si posa a
nascondere la terra umida. Vede gli scoiattoli fare le ultime corse fra i rami
spogli e il bestiame abbandonare le valli per tornare nel calore delle stalle.
Si addormenta sotto stelle così luminose da
disturbare il buio della notte. Si sveglia alla luce del sole che all’alba tinge d’oro le cime più alte
e che al tramonto le abbraccia rendendo il paesaggio magicamente rosa e...
guarda.
Sei riuscita a far convivere senza discrasie le descrizioni tecnico-alpine con le descrizioni veramente evocative dei posti che, anche se non conosco,mi appaiono come fotografati sulla pagina. Inoltre l'aspetto fantastico è poetico senza essere sdolcinato o troppo sentimentale. Il tutto espresso con leggerezza e senza lungaggini. Brava!
RispondiEliminaBellissimo e commovente, mi era piaciuto la prima volta che l'avevi letto e lo rileggo con piacere oggi. E' un genere proprio nelle tue corde, continua così!
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