Quell’anno cadeva il Kumbha Mela, il più grande raduno di pellegrini indù dell’India, e una delle località toccate dall’evento è Haridwar, ai piedi dell’Himalaya. Era il pretesto che tanto attendavamo per la nostra prima vera esperienza al Sivananda Ashram.
L’Ashram è considerato uno dei luoghi più
importanti dell’India per l’insegnamento e la diffusione di pratiche di
meditazione, yoga e letture sacre. Ininterrottamente, ventiquattr’ore al
giorno, per 365 giorni all’anno, i monaci si danno il turno per recitare un
mantra nella sala preghiere.
Affacciato sul sacro Gange, a Rishikesh, una
località poco distante da Haridwar e frequentata a suo tempo anche dai Beatles,
l’Ashram attendeva il nostro arrivo. Avevamo persino mandando un fax da Milano
cui non ci era pervenuta alcuna conferma. Quindi si aggiungeva, alle altre, una
nuova ansia: ”non avranno posto, non hanno ricevuto il fax, forse non ci considerano
degne dell’Ashram…”.
Giungemmo all’Ashram un tardo pomeriggio di
gennaio, con tanto di auto e autista, il fedele Ram Phool, che scaricò i
bagagli e ci salutò sulla soglia della reception,
poco convinto e con gli occhi lucidi. Un giovane monaco registrò i nostri nomi.
Un bel viso scuro, dignitoso, occhi profondi che ci trapassavano come
due lame affilate, un’espressione indecifrabile che avevamo accolto come una
sfida. “How many days”? si divertì a chiederci, sapendo che non
saremmo resistite più di due giorni. “One
week”, rispondemmo impavide e seguimmo un altro monaco fino alla nostra
cella. A dire il vero, la stanza era spaziosa, aerata, luminosa, pulita e
immersa nella natura, con una semplice toilette Indian style, acqua
fredda ma corrente. Guru-ji, presa da un’inspiegabile nostalgia delle faccende
domestiche, si era appropriata dello scopino che viene utilizzato in ogni
angolo dell’India e, piegata sulle ginocchia, spazzava la stanza come mai aveva
osato fare a casa sua, cantando addirittura i mantra! Insomma, sembrava una
bambina a Disneyland, saltellava qua e là, entusiasmandosi di fronte a tanta
spiritualità. Che passo avanti nel suo cammino ascetico!
Decise a rispettare alla lettera le regole
della vita spartana dell’Ashram, ci lavammo con l’acqua gelida, ci vestimmo con
semplici e informi abiti indiani e ci presentammo nel salone destinato al
pranzo e alla cena.
In un immenso locale dipinto di azzurro,
illuminato dai consueti malinconici neon e rimbombante come una palestra
scolastica, il monaco di turno ci diede due ticket squadrandoci cinicamente
e indicandoci con un gesto brusco il nostro posto. Sul pavimento erano stese
lunghe stuoie parallele che venivano srotolate man mano che i fedeli, per la
maggior parte mendicanti e persone bisognose del luogo, vi prendevano posto. Ci
sedemmo quindi sull’ultima stuoia libera, di fronte al muro. In silente e
rispettosa attesa, fissando un punto indefinito di fronte a noi e senza
guardarci, attendemmo la cena.
Un altro monaco passò con un secchio dal
quale raccoglieva una mestolata di cibo che schiaffava senza cerimonie sulla
foglia di banano che fungeva da piatto posta davanti a ogni commensale. Riso
stracotto e ormai freddo. Un altro passò con il dhal (zuppa di lenticchie), di
un colorino giallastro non troppo invitante, un terzo con il chapati (piadina
romagnola) probabilmente avanzato il giorno prima e l’ultimo con l’acqua che
sostituimmo con quella della nostra bottiglietta sigillata.
Dopo un vago tentativo di assaggiare le
cibarie, dettato più che altro dalla curiosità, notai inorridita con la coda
dell’occhio Guru-ji che si portava con noncuranza la ciotola del dhal alle
labbra. Con irritazione la bloccai: ”Cosa
stai facendo, non avrai mica intenzione di mangiare questa roba qui?!”
Svegliata finalmente dal torpore in cui stava
scivolando, Guru-ji cercò di ribattere: ”Non
possiamo mica lasciare qui tutto, è mancanza di rispetto per l’Ashram…”
Le proibii di toccare qualsiasi cosa, pena
l’abbandono immediato.
Guru-ji si sentiva responsabile per avermi coinvolta
in questa avventura e stava facendo sforzi sovrumani per fingere che fosse
tutto normale, mentre in cuor suo malediceva il momento in cui le era venuto il
pallino dell’Ashram. Contemporaneamente era caduta in uno sconfortante stato di
frustrazione perché si era resa conto che ancora non era pronta per
Seguendo quel poco di senso pratico che mi
era rimasto, le spiegai la strategia di fuga: avremmo aspettato qualche minuto
e poi ci saremmo confuse con gli altri, avremmo pulito i nostri vassoi e via, nessuno
si sarebbe accorto di nulla.
Un fischio penetrante segnò la fine della
cena. I commensali, tutti indiani e tutti uomini, si alzarono all’istante dirigendosi
verso delle grandi vasche per lavare vassoi e bicchieri, il pavimento era
cosparso di pericolose e disgustose tracce di unto e noi, come gli altri,
eravamo ovviamente a piedi nudi. Ma lo sguardo del vigilante alla porta non
ci aveva lasciato un istante e, richiamando continuamente la nostra attenzione
con il fischietto, il monaco, con un’espressione di esternata disapprovazione,
ci fece segno di gettare il cibo ancora intatto in un contenitore prima di lavare
il vassoio. Umilmente, a testa bassa, vincendo la repulsione del pavimento e
tutto il resto, terminammo alla bell’e meglio il compito e guadagnammo in
fretta l’uscita, quasi correndo per allontanarci il prima possibile dal tetro
edificio.
Decidemmo di consolarci con una cena frugale
da qualche parte fuori dall’Ashram, badando di rientrare entro le dieci per non
rischiare di passare la notte all’addiaccio.
Entrammo nel primo ristorantino, subito al di
là del ponte di Laxmanjula sul Gange, tanto qualsiasi trani sarebbe andato bene
dopo quello che avevamo passato. Nonostante la temperatura frizzante della sera
ci sedemmo in terrazza, al centro della quale era stato posto un enorme braciere,
”Wow, c’è persino il barbecue!”, pensammo,
ma il fuoco era destinato solo a scaldare i poveri camerieri tra una portata e
l’altra, vista la loro uniforme decisamente inadeguata alla temperatura
himalayana.
Nonostante il freddo, Sameer, il nostro cameriere
trovava ogni scusa per venire al nostro tavolo a far conversazione. Avvolto in
una sciarpa color porpora, tremava e batteva i piedi ritmicamente, mentre noi,
intabarrate nei nostri pile, ci scaldavamo le mani stringendo un bicchiere di
tè.
Alla fine della cena eravamo al consueto scambio
di indirizzi, quando azzardai l’ipotesi di una foto ricordo. Alla magica parola
foto,
Sameer abbandonò con uno schianto il vassoio colmo di portate che aveva in mano,
piroettò su se stesso, scomparve in fondo al locale, aprì un armadietto con
specchio e, ancheggiando come Tony Manero il sabato sera, si sfilò il gilet, si
infilò un morbido pullover perfettamente abbinato alla sciarpa, estrasse un pettine
dalla tasca posteriore dei pantaloni, si riavviò i capelli, si rimirò di fronte
e di profilo, ”Oh yeahhh!!!”, richiuse
l’armadietto e, fissandoci negli occhi, tornò verso il nostro tavolo
improvvisando un sensuale paso doble, provato chissà quante volte davanti allo
specchio e lanciandoci la sciarpa come fosse una muleta: Olè!
Rispetto alla morigerata proposta di
entertainment serale offerta dall’Ashram, ci sembrò di essere finite al Tropicana.
Come Cenerentole, al decimo rintocco infilammo
il cancello dell’Ashram prima che venisse chiuso con un pesante catenaccio.
Il lungo fischio che cadenzava i vari momenti
della giornata ci svegliò di soprassalto prima dell’alba, dopo una notte pregna
di umidità. Ci svegliammo terrorizzate e chiudemmo gli occhi aspettandoci una
raffica di mitra. I sogni erano popolati da incubi nei quali i nostri tentativi
di fuga venivano resi vani da inerpicate griglie di ferro spinato e ringhiosi
doberman che ci rincorrevano. Il tutto illuminato dallo spettrale fascio
intermittente di un faro.
A due giorni dall’arrivo, armate di coraggio
o forse spinte dalla disperazione, ci presentammo, bagaglio alla mano, alla reception, pregando che fosse di
turno un qualsiasi altro monaco. Invece no, lui era ancora lì, sicuro che ci
avrebbe riviste prima del previsto, ma lo sprezzo aveva lasciato il posto a un
amabile sorriso traboccante benevolenza come a dire “Avete ancora tanta strada da fare. Riprovate… nella prossima vita!”
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