martedì 30 settembre 2014

Quando le nuvole fanno paura

Quel sabato 10 luglio 2010 al “Bosco delle Querce” erano venuti in molti.
C’erano famiglie con bambini che giocavano fra gli alberi, ragazzi spensierati e innamorati sdraiati sul prato e un vecchio che, seduto su una sedia a rotelle, li osservava in silenzio.

Nessuno di loro, pensava il vecchio, sa cos’è sepolto sotto i nostri piedi, in pochi conoscono la storia e tanti hanno già dimenticato.
Un velo di tristezza gli appannava lo sguardo, il grigiore della pelle e le guance scavate denunciavano una malattia che lo stava consumando e lo costringeva a vivere il suo ultimo dramma.
Si guardava intorno tentando di individuare il posto preciso in cui, trentaquattro anni prima, sorgeva la sua casa, ma tutto era cambiato.
Sulla spalla sentiva il calore e la pressione esercitata dalla mano di suo figlio, con la sua strinse quella di Rosa che gli stava accanto e chiuse gli occhi. Protetto da quella catena di solidarietà, sempre tenendo gli occhi chiusi, guardò nel suo passato.

<< Papà guarda! Che pigrone, stanno ancora dormendo. >>
Ogni giorno alle cinque e trenta del mattino Riccardo controllava il bestiame nei recinti dietro le stalle. Quell’estate lo accompagnava suo figlio Luca che, a otto anni, si sentiva già grande e voleva aiutare il padre.
Riccardo era rimasto un po’ indietro rispetto a Luca, aveva notato, sul ciglio del sentiero che portava alle stalle, il corpicino scomposto di un piccione morto e, recuperato un badile, lo aveva raccolto e gettato nel mucchio di sterpaglie pronto per essere bruciato.
Alle parole del figlio un campanello d’allarme aveva iniziato a suonare nel suo cervello, con una corsa lo aveva raggiunto e quello che vide…
Quello che vide gli fece spalancare gli occhi e accelerare il battito del cuore, sentì le gambe cedere e il gelo della paura gli provocò un brivido.
Luca aveva ragione, a un primo sguardo, sembrava che alcune mucche stessero dormendo, ma quello non era sonno.
Molte bestie giacevano sdraiate e sparpagliate nei recinti con gli occhi aperti e lo sguardo già reso vitreo dalla morte. Altre, agonizzanti, tra un respiro faticoso e un altro, tentavano un muggito sommesso.
<< Lasciamole dormire. >> disse Riccardo al bambino affrettandosi a cingergli le spalle per voltarlo e ricondurlo verso casa. << Torneremo più tardi. >>

Arrivato nel cortile, aveva alzato lo sguardo e, sul balcone, c’era Rosa che, nonostante le nausee mattutine, continuava come sempre a occuparsi della casa. Stava mettendo le lenzuola e i cuscini sul balcone a prendere aria e, quando li aveva visti, aveva sorriso e si era appoggiata la mano sul ventre ancora piatto per accarezzarlo, ma lui non aveva ricambiato il sorriso e aveva mandato Luca nella legnaia a giocare con i cuccioli di Sissi. Le labbra di Rosa, allora, si erano trasformate in una linea dura e, alla radice del naso, tra gli occhi ridotti a fessure, erano spuntate rughe di preoccupazione. La mano era rimasta dov’era, ma si era fermata.
Lo aveva raggiunto e si era rifugiata, senza sapere perché, nel suo abbraccio disperato.
<< Siamo rovinati! >> le disse Riccardo << Le mucche stanno morendo. >>
Riccardo aveva parcheggiato l’Opel Kadett gialla dietro gli uffici comunali di Seveso.
Alle sette del mattino la piazza principale era gremita come fosse giorno di mercato e, con Rosa e Luca, si era unito a tutti quelli che, come loro, cercavano risposte.
Ma il sindaco però aveva una sola risposta, l’unica che gli avevano fornito, rassicurandolo, i due tecnici dell’”ICMESA” che si erano recati da lui qualche giorno prima.
Nella fabbrica situata tra la Brianza e la metropoli milanese, la valvola di sicurezza di un reattore era esplosa provocando la fuoriuscita di agenti chimici che avevano creato una grande nuvola rosa, ma non c’era da preoccuparsi perché…
<< E’ tutto sotto controllo. >> gli avevano detto e lui ci aveva creduto.
A fatica e in ritardo le risposte erano arrivate, la morte degli animali e le piaghe apparse a devastare il viso di molti bambini erano state causate dalla Diossina che, nascosta nella nuvola rosa, il 10 luglio del 1976, aveva abbellito il cielo e avvelenato la terra.
Decine di scienziati, protetti da maschere e tute bianche, vagavano per le campagne di Seveso e dintorni controllando il livello di contaminazione nel terreno e, in base a quello, il territorio era stato suddiviso in zone: la zona “R”, chiamata di rispetto, si era mantenuta inalterata, nella zona “B” i livelli di Diossina erano bassi quindi le famiglie potevano restare nelle loro case, ma il piccolo allevamento di Riccardo sorgeva nella zona “A” che andava completamente evacuata e isolata ed erano stati costretti a trasferirsi in uno degli alloggi messi a disposizione dalla Regione.

La sedia a rotelle aveva ripreso a muoversi sul sentiero irregolare del parco, Riccardo aveva riaperto gli occhi e scorto dei pannelli che costeggiavano il viale. Come percorrendo una Via Crucis si erano avvicinati a ognuna delle undici tavole e avevano cominciato a leggere la Storia di Seveso e della Diossina.
Ma nessun pannello raccontava di come Riccardo, rimasto improvvisamente privo di qualsiasi occupazione, vagava, come tanti, per uffici comunali e bar.
Bar pieni a tutte le ore del giorno; bar dove l’argomento era sempre lo stesso; bar dove i bicchieri venivano riempiti e svuotati continuamente di un altro veleno.
Nessun pannello era bagnato dalle lacrime di Rosa e di tutte le donne che, contro la chiesa, contro le istituzioni e anche contro se stesse avevano rinunciato al bambino che portavano in grembo.
In nessun pannello si percepiva lo smarrimento dei bambini come Luca che sognavano un’estate di giochi nei prati e che un giorno erano stati costretti, da uomini vestiti come astronauti, ad abbandonare tutto.
Nessun pannello denunciava i proprietari svizzeri dell’Icmesa, che avevano deciso di costruire la loro fabbrica, lontano da loro solo perché la legge italiana era meno rigida riguardo ai sistemi di sicurezza. La chiamavano la “Fabbrica dei profumi” e invece ne uscivano solo delle gran puzze.
Nella storia che raccontano i pannelli c’è la storia di Seveso e della Diossina, ma non c’è scritto che nelle vasche sotterranee, oltre ai quarantatre ettari di terreno denominato “Zona A” con le sue quaranta case, le strade, la fabbrica e tutto il materiale contaminato, sepolti a nove metri di profondità, ci sono anche sogni e progetti e rimpianti per bambini mai nati.

Per la prima volta dopo trentaquattro anni oltre duecento persone avevano potuto accedere alle vasche, ma Riccardo, Rosa e Luca non erano scesi nel tunnel, preferivano ricordare la loro casa com’era allora: piena di vita e illuminata dalla luce del sole che brillava in un cielo senza nuvole.

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