Quel
sabato 10 luglio 2010 al “Bosco delle Querce” erano venuti in
molti.
C’erano
famiglie con bambini che giocavano fra gli alberi, ragazzi
spensierati e innamorati sdraiati sul prato e un vecchio che, seduto
su una sedia a rotelle, li osservava in silenzio.
Nessuno
di loro, pensava il vecchio, sa cos’è sepolto sotto i nostri
piedi, in pochi conoscono la storia e tanti hanno già dimenticato.
Un
velo di tristezza gli appannava lo sguardo, il grigiore della pelle e
le guance scavate denunciavano una malattia che lo stava consumando e
lo costringeva a vivere il suo ultimo dramma.
Si
guardava intorno tentando di individuare il posto preciso in cui,
trentaquattro anni prima, sorgeva la sua casa, ma tutto era cambiato.
Sulla
spalla sentiva il calore e la pressione esercitata dalla mano di suo
figlio, con la sua strinse quella di Rosa che gli stava accanto e
chiuse gli occhi. Protetto da quella catena di solidarietà, sempre
tenendo gli occhi chiusi, guardò nel suo passato.
<<
Papà guarda! Che pigrone, stanno ancora dormendo. >>
Ogni
giorno alle cinque e trenta del mattino Riccardo controllava il
bestiame nei recinti dietro le stalle. Quell’estate lo accompagnava
suo figlio Luca che, a otto anni, si sentiva già grande e voleva
aiutare il padre.
Riccardo
era rimasto un po’ indietro rispetto a Luca, aveva notato, sul
ciglio del sentiero che portava alle stalle, il corpicino scomposto
di un piccione morto e, recuperato un badile, lo aveva raccolto e
gettato nel mucchio di sterpaglie pronto per essere bruciato.
Alle
parole del figlio un campanello d’allarme aveva iniziato a suonare
nel suo cervello, con una corsa lo aveva raggiunto e quello che vide…
Quello
che vide gli fece spalancare gli occhi e accelerare il battito del
cuore, sentì le gambe cedere e il gelo della paura gli provocò un
brivido.
Luca
aveva ragione, a un primo sguardo, sembrava che alcune mucche
stessero dormendo, ma quello non era sonno.
Molte
bestie giacevano sdraiate e sparpagliate nei recinti con gli occhi
aperti e lo sguardo già reso vitreo dalla morte. Altre, agonizzanti,
tra un respiro faticoso e un altro, tentavano un muggito sommesso.
<<
Lasciamole dormire. >> disse Riccardo al bambino affrettandosi
a cingergli le spalle per voltarlo e ricondurlo verso casa. <<
Torneremo più tardi. >>
Arrivato
nel cortile, aveva alzato lo sguardo e, sul balcone, c’era Rosa
che, nonostante le nausee mattutine, continuava come sempre a
occuparsi della casa. Stava mettendo le lenzuola e i cuscini sul
balcone a prendere aria e, quando li aveva visti, aveva sorriso e si
era appoggiata la mano sul ventre ancora piatto per accarezzarlo, ma
lui non aveva ricambiato il sorriso e aveva mandato Luca nella
legnaia a giocare con i cuccioli di Sissi. Le labbra di Rosa, allora,
si erano trasformate in una linea dura e, alla radice del naso, tra
gli occhi ridotti a fessure, erano spuntate rughe di preoccupazione.
La mano era rimasta dov’era, ma si era fermata.
Lo
aveva raggiunto e si era rifugiata, senza sapere perché, nel suo
abbraccio disperato.
<<
Siamo rovinati! >> le disse Riccardo << Le mucche stanno
morendo. >>
Riccardo
aveva parcheggiato l’Opel Kadett gialla dietro gli uffici comunali
di Seveso.
Alle
sette del mattino la piazza principale era gremita come fosse giorno
di mercato e, con Rosa e Luca, si era unito a tutti quelli che, come
loro, cercavano risposte.
Ma
il sindaco però aveva una sola risposta, l’unica che gli avevano
fornito, rassicurandolo, i due tecnici dell’”ICMESA” che si
erano recati da lui qualche giorno prima.
Nella
fabbrica situata tra la Brianza e la metropoli milanese, la valvola
di sicurezza di un reattore era esplosa provocando la fuoriuscita di
agenti chimici che avevano creato una grande nuvola rosa, ma non
c’era da preoccuparsi perché…
<<
E’ tutto sotto controllo. >> gli avevano detto e lui ci aveva
creduto.
A
fatica e in ritardo le risposte erano arrivate, la morte degli
animali e le piaghe apparse a devastare il viso di molti bambini
erano state causate dalla Diossina che, nascosta nella nuvola rosa,
il 10 luglio del 1976, aveva abbellito il cielo e avvelenato la
terra.
Decine
di scienziati, protetti da maschere e tute bianche, vagavano per le
campagne di Seveso e dintorni controllando il livello di
contaminazione nel terreno e, in base a quello, il territorio era
stato suddiviso in zone: la zona “R”, chiamata di rispetto, si
era mantenuta inalterata, nella zona “B” i livelli di Diossina
erano bassi quindi le famiglie potevano restare nelle loro case, ma
il piccolo allevamento di Riccardo sorgeva nella zona “A” che
andava completamente evacuata e isolata ed erano stati costretti a
trasferirsi in uno degli alloggi messi a disposizione dalla Regione.
La
sedia a rotelle aveva ripreso a muoversi sul sentiero irregolare del
parco, Riccardo aveva riaperto gli occhi e scorto dei pannelli che
costeggiavano il viale. Come percorrendo una Via Crucis si erano
avvicinati a ognuna delle undici tavole e avevano cominciato a
leggere la Storia di Seveso e della Diossina.
Ma
nessun pannello raccontava di come Riccardo, rimasto improvvisamente
privo di qualsiasi occupazione, vagava, come tanti, per uffici
comunali e bar.
Bar
pieni a tutte le ore del giorno; bar dove l’argomento era sempre lo
stesso; bar dove i bicchieri venivano riempiti e svuotati
continuamente di un altro veleno.
Nessun
pannello era bagnato dalle lacrime di Rosa e di tutte le donne che,
contro la chiesa, contro le istituzioni e anche contro se stesse
avevano rinunciato al bambino che portavano in grembo.
In
nessun pannello si percepiva lo smarrimento dei bambini come Luca che
sognavano un’estate di giochi nei prati e che un giorno erano stati
costretti, da uomini vestiti come astronauti, ad abbandonare tutto.
Nessun
pannello denunciava i proprietari svizzeri dell’Icmesa, che avevano
deciso di costruire la loro fabbrica, lontano da loro solo perché la
legge italiana era meno rigida riguardo ai sistemi di sicurezza. La
chiamavano la “Fabbrica dei profumi” e invece ne uscivano solo
delle gran puzze.
Nella
storia che raccontano i pannelli c’è la storia di Seveso e della
Diossina, ma non c’è scritto che nelle vasche sotterranee, oltre
ai quarantatre ettari di terreno denominato “Zona A” con le sue
quaranta case, le strade, la fabbrica e tutto il materiale
contaminato, sepolti a nove metri di profondità, ci sono anche sogni
e progetti e rimpianti per bambini mai nati.
Per
la prima volta dopo trentaquattro anni oltre duecento persone avevano
potuto accedere alle vasche, ma Riccardo, Rosa e Luca non erano scesi
nel tunnel, preferivano ricordare la loro casa com’era allora:
piena di vita e illuminata dalla luce del sole che brillava in un
cielo senza nuvole.
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