mercoledì 1 ottobre 2014

Una vecchia signora

Al risveglio, ho nascosto cartoni, coperte e segreti nel solito posto.
Al diurno, mi sono lavata; non tanto per rendermi presentabile, giacché più sei conciata e sudicia, più realizzi, ma per me stessa: ci tengo al mio decoro. Non sono come gli uomini che si lasciano andare quasi tutti, in tutti i modi, in tutti i sensi. Sulla metro, verso il centro, i passeggeri sono pigiati gli uni addosso agli altri, ma mantengono tutti una certa distanza da me. Mi hanno riconosciuto come una perdente, possono scegliere tra: barbona, profuga, clandestina o migrante ma donna e vecchia fanno la differenza. C’è sempre un ultimo più ultimo e colgo spesso alitare intorno una certa acredine verso la categoria dei vecchi, se poi sono vecchie, sento una ventata. Sono una straniera in mezzo alla folla dei pendolari.  Per loro sono invisibile, tanto trasparente che potrebbero attraversarmi mentre corrono verso il nulla. E se mi vedono, sono solo un inciampo, un’ingombrante signora avvizzita con il foulard che trascina una borsa della spesa spelacchiata e che, da vicino, puzza, non di sporco, ma di umidiccio, quello del pelo dei cani dopo la pioggia. Arrivata in centro, sistemo le mie cose per terra e mi siedo appoggiata contro il muro. Espongo il mio cartello con la scritta: ”Ho fame”. Di certo penseranno che sia solo cibo quello che voglio… Aspetto e guardo i passanti: ne avverto il fastidio e l’inquietudine; l’occhiata frettolosa che evita di incrociare il mio sguardo è di compatimento o di disprezzo.  Qualcuno decide di fare il bel gesto della giornata e allunga nel bicchierino di plastica qualche centesimo. Due amiche s’incontrano. La bimba che le accompagna, si avvicina, mi fissa assorta e mi chiede: ”Perché sei seduta per terra? Stai male?“No, cara, sto bene, solo che sono stanca e non voglio stare in piedi”. “Vai dentro il bar allora, al caldo.  Il marciapiede è freddo e ti sporchi tutta”. Sì, hai ragione, adesso faccio come dici tu”. La madre, guardandomi un po’ schifata le prende la mano e dice: “Carolina, andiamo, è tardi”. Carolina - che nome dolce - mi saluta con la mano e si allontana. Poi torna e mi fa una carezza sulla guancia. La madre la riprende e se ne vanno. Sento che la sgrida: “Quante volte ti ho detto che non si parla agli sconosciuti e accarezzarli poi… potrebbero essere spo…”. Sono travolta dalle umiliazioni, cattiverie e soprusi sopportati in silenzio o respinti con l’unica ricchezza che mi è rimasta: la dignità. È bastata la carezza di una bambina per allagare le mie guance. Mi alzo, mi asciugo gli occhi con il dorso della mano e sollevo il mento. Saprei insegnare tante cose a Carolina, e alle bambine come lei, potrei trasmettere loro le storie di tante vite affinché non vadano dimenticate e le raccontino, un giorno, alle loro figlie in una catena che raggiunga ogni donna che, come tutte, comincia con l’essere “una bambina” per poi diventare per tutti solo … “una vecchia”.  

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