Al diurno, mi sono
lavata; non tanto per rendermi presentabile, giacché più sei conciata e
sudicia, più realizzi, ma per me stessa: ci tengo al mio decoro. Non sono come
gli uomini che si lasciano andare quasi tutti, in tutti i modi, in tutti i
sensi. Sulla metro, verso il centro, i passeggeri sono pigiati gli uni addosso
agli altri, ma mantengono tutti una certa distanza da me. Mi hanno riconosciuto
come una perdente, possono scegliere tra: barbona, profuga, clandestina o
migrante ma donna e vecchia fanno la differenza. C’è sempre un ultimo più
ultimo e colgo spesso alitare intorno una certa acredine verso la categoria dei
vecchi, se poi sono vecchie, sento una ventata. Sono una straniera in mezzo
alla folla dei pendolari. Per loro sono
invisibile, tanto trasparente che potrebbero attraversarmi mentre corrono verso
il nulla. E se mi vedono, sono solo un inciampo, un’ingombrante signora
avvizzita con il foulard che trascina una borsa della spesa spelacchiata e che,
da vicino, puzza, non di sporco, ma di umidiccio, quello del pelo dei cani dopo
la pioggia. Arrivata in centro, sistemo le mie cose per terra e mi siedo
appoggiata contro il muro. Espongo il mio cartello con la scritta: ”Ho fame”.
Di certo penseranno che sia solo cibo quello che voglio… Aspetto e guardo i
passanti: ne avverto il fastidio e l’inquietudine; l’occhiata frettolosa che
evita di incrociare il mio sguardo è di compatimento o di disprezzo. Qualcuno decide di fare il bel gesto della
giornata e allunga nel bicchierino di plastica qualche centesimo. Due amiche
s’incontrano. La bimba che le accompagna, si avvicina, mi fissa assorta e mi
chiede: ”Perché sei seduta per terra?
Stai male?” “No, cara, sto bene, solo
che sono stanca e non voglio stare in piedi”. “Vai dentro il bar allora, al
caldo. Il marciapiede è freddo e ti
sporchi tutta”. “Sì, hai ragione,
adesso faccio come dici tu”. La madre, guardandomi un po’ schifata le
prende la mano e dice: “Carolina,
andiamo, è tardi”. Carolina - che nome dolce - mi saluta con la mano e si
allontana. Poi torna e mi fa una carezza sulla guancia. La madre la riprende e
se ne vanno. Sento che la sgrida: “Quante
volte ti ho detto che non si parla agli sconosciuti e accarezzarli poi… potrebbero
essere spo…”. Sono travolta dalle umiliazioni, cattiverie e soprusi
sopportati in silenzio o respinti con l’unica ricchezza che mi è rimasta: la
dignità. È bastata la carezza di una bambina per allagare le mie guance. Mi
alzo, mi asciugo gli occhi con il dorso della mano e sollevo il mento. Saprei
insegnare tante cose a Carolina, e alle bambine come lei, potrei trasmettere
loro le storie di tante vite affinché non vadano dimenticate e le raccontino,
un giorno, alle loro figlie in una catena che raggiunga ogni donna che, come
tutte, comincia con l’essere “una bambina” per poi diventare per tutti solo …
“una vecchia”.
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