mercoledì 1 ottobre 2014

I conti non tornano

La giornata iniziò come il solito.
Sveglia alle sette, doccia veloce, caffè, spremuta, fetta biscottata.
Trucco leggero, tailleur regolamentare, cartella con i faldoni e via.
Con quattro manovre uscii in retromarcia dallo scivolo e mi diressi alla metro. L’auto procedeva da sola, memore del solito percorso, mentre la mia mente era altrove; notai una punta di preoccupazione che s’insinuava, ma la scacciai subito.
Oggi c’è l’audit degli svedesi, pensai, quelli di Stoccolma, della casa madre, gli stessi che ogni sei mesi vengono a controllare di persona come vanno le cose. Niente di preoccupante se abbiamo lavorato bene e abbiamo sempre lavorato bene, soprattutto io. Il mio capo mi ha dato il contentino dicendomi: «Bel lavoro Leonardi!».
Stava collaudando la prova generale della rappresentazione che avrebbe messo in scena davanti a Mr. Skoglund e Mr. Lindgren per avere la loro approvazione e beccarsi tutto il merito, come sempre.
A me non importa, l’ambiente mi piace, colleghi simpatici e colleghe non pettegole, tutto il contrario del posto precedente, dove era d’obbligo indossare l’armatura per non restare colpiti da fendenti e spilloni appena voltavi le spalle.  Il solito meccanismo competitivo si ripeteva, incurante di anni di femminismo e della tanto sventolata solidarietà femminile, vacante a tutti gli effetti. Le colleghe prendevano di mira quella troppo carina per la tipica invidia femminile e non le riconoscevano alcuna competenza professionale, ma solo l’abilità nell’uso delle sue arti femminili.  I colleghi, d’altra parte, dopo averci provato con lei, senza esito, collaboravano alle maldicenze, sobillando e istigando e così alla fine la malcapitata di turno soccombeva o se ne andava. Chi ne beneficiava per la carriera, erano i colleghi maschi, non certo le donne, invidiose o no.
Questo lavoro io lo amo, i numeri li adoro fin da piccola perché rappresentano la perfezione, con loro non ci sono mai dubbi, se i conti non tornano, è sempre colpa tua, non loro, per me sono un inno al creato. Gli amici mi chiedono spesso come faccia a piacermi una materia così fredda, insensibile, rispondo sempre che a me invece danno sicurezza e questa sicurezza è pura emozione.
E ora che avevo verificato che i conti erano a posto, ero tranquilla; il mio difetto, quello che m’imputavano gli altri: di essere un po’ troppo precisa, scrupolosa, perfino pedante, poteva andare a nascondersi nel suo angolino remoto al buio insieme all’insicurezza e alla timidezza.
Mi tornò la punta di ansia, ma perché? 

La scorsa settimana ero entrata di corsa dal capo, senza bussare, come il solito, a causa di qualcosa che non tornava con i miei cari numeri. Lui, al telefono e allungato sulla poltrona con le gambette corte appoggiate sul cassetto, l’ultimo in basso della scrivania, era arrossito e aveva chiuso velocemente la conversazione. Poi mi aveva investito con una girata colossale, ma ormai la litania la conoscevo a memoria e quando c’erano i numeri di mezzo, non mi fermavo davanti a niente, figurarsi davanti a una porta chiusa. Dopo le scuse, esposi il problema che risolvemmo subito, un giustificativo mancante era rimasto impigliato in una sua pratica e ripetendo ancora le scuse ero ritornata alla mia scrivania.
Ero però turbata, mi rimbalzavano nella mente le poche parole udite prima che s’interrompesse: «Guarda anche le virgole, i centesimi, il particolare, ma le sfugge il quadro generale…». Di chi e con chi stava parlando Marzi?
Accantonati i dubbi, mi ero di nuovo immersa nei miei calcoli.
Intanto arrivata al parcheggio, sistemai l’auto e mi avviai alla metro; per fortuna trovai posto, avevo davanti nove fermate per arrivare in centro e così tirai fuori la mia cartellina per ricontrollare per l’ennesima volta le mie cifre. Dopo qualche fermata il vagone era strapieno di formichine che, come me, sarebbero poi sciamate a recuperare la briciolina quotidiana.
All’improvviso una frenata brusca; udimmo la voce dell’altoparlante che ripeteva la consueta frasetta registrata «A causa di un’interruzione sulla linea il treno rimarrà in sosta qualche minuto». Immediatamente si svolse la solita scenetta da film western con l’estrazione simultanea di tutti i cellulari, ma subito dopo tutti i passeggeri rinfoderarono l’arma di ordinanza perché non c’era campo. Iniziò il coro greco con «Non è possibile, ancora? È la terza volta questa settimana» cui un improvvisato protagonista decise di dare forma e sostanza con un «Adesso basta, gli facciamo causa all’ATM». La precisina che era in me pensò: speriamo che scriva meglio di come parli, altrimenti la causa è già persa.
Mi accorsi intanto che il tipo seduto di fianco a me, che non avevo guardato quando mi ero seduta, allungava il collo per spiare i miei fogli e leggere i miei numeri. Come il solito, pensai. Mi hanno sempre infastidito quelli che cercano di leggere il tuo giornale o spiare il titolo del libro che tieni tra le mani, insomma perché non vi organizzate per non annoiarvi e non disturbare i vicini?
Cercai di allontanarmi spostandomi verso l’esterno, ma c’erano le gambe degli altri passeggeri in piedi, allora voltai il viso di colpo e mi ritrovai il suo a pochi centimetri dal mio naso. Incontrai i due occhi più incredibili mai visti.  Il colore era azzurro, no, indaco, no, non lo so che gradazione fosse, so solo che mi persi. Per qualche secondo la stessa inquietudine di poco prima mi riprese, ma per fortuna lui mi svegliò con «Mi perdoni, penserà che sia un gran maleducato, ma vede, ho intravisto le cifre sui suoi fogli e non ho resistito, i numeri sono la mia passione, sono stato indiscreto. Chiedo scusa».
Noo - pensai - occhi incredibili e gli piacciono i numeri, è un po’ troppo tutto insieme. Da quando lavoravo in quest’azienda, mi ero buttata anima e corpo nei miei incarichi senza pensare alla mia situazione sentimentale o sarebbe meglio chiamarla zitellaggine. Non uscivo più con le amiche, non andavo al cinema, a teatro, ero tutta casa e lavoro, ma mi mancava comunque una persona che avesse i miei interessi, avesse le mie stesse passioni, magari anche i difetti, insomma mi fosse affine. E ora questo tizio mi capitava tra capo e collo con tutto l’armamentario per piacermi. In pochi secondi, mentre m’immergevo in quegli incredibili occhi azzurri, questa ipotesi si affacciò nella mia mente, ma la scacciai subito, rispondendo:
«Stavo controllando un lavoro, Lei cosa fa? ».
«Lavoro proprio con i numeri, mi chiamo Paolo, Paolo Guidi» porgendomi la mano.   
«Io sono Mara Leonardi e anch’io, come ha visto, lavoro con i numeri».
In quel momento la solita voce annunciò che l’interruzione sulla linea era terminata e che il treno sarebbe ripartito entro pochi secondi. Come un’onda, un mormorio di sollievo attraversò il vagone.
Rimisi via le carte e mi lambiccai il cervello per trovare qualcosa d’interessante da dire a Paolo, dentro di me, naturalmente, gli davo già del tu.
Parlò lui invece: «Scendo alla prossima, anche se non è la mia fermata, perché mi piace camminare, sono in ritardo, ma non importa. Piacere di averla conosciuta, collega dei numeri. Arrivederci».
Scomparve in un attimo, non ricordo nemmeno di averlo visto scendere.
Intanto il cellulare squillava invano, veramente squillavano tutti i cellulari, era tornato il campo. Risposi, era l’ufficio: «Ma dove sei? Che cosa fai? Ma non lo senti il telefono? Ti abbiamo chiamato almeno dieci volte, il capo sta urlando, lo senti in sottofondo? ». Spiegai l’accaduto e chiusi.
Scesa dal vagone mi diressi velocemente all’ufficio perché le gambe mi portavano, ma io pensavo a quegli occhi. Non era da me, ero scombussolata.
Alla reception erano schierati in tre ad aspettarmi: «Vai subito in sala riunioni, il capo ha detto che devi stare sempre zitta, solo se t’interrogano, puoi rispondere e… sistemati i capelli prima, guarda come sei conciata».
Mentre mi aggiustavo prima di entrare, mi dissi: Oddio, Paolo mi ha visto così in disordine!

Erano tutti schierati: il mio capo con la sua solita patina malsana e umida sul viso, la sua segretaria tirata a lucido, il vice dell’amministratore e tutti gli aiuti, Mr. Skoglund e Mr. Lindgren con gli interpreti.
La storia degli interpreti non l’ho mai capita. Si parla tutti in inglese, a cosa servono? A parte riferire le mie battute bofonchiate in sordina e che, a quanto pare, non sanno tradurre perché non ridono mai, oppure agli svedesi manca il senso dell’umorismo.
Comunque Mr. Lindgren sputava svedese nel cellulare, poi chiuse e rivolto a tutti ci disse: «Abbiamo attentamente letto il report inviatoci che testimonia il bel risultato raggiunto… - il mio capo già gongolava - ma desideriamo fare, in occasione di questo audit, un nuovo controllo e per farlo ci siamo affidati a un vero esperto, il sig. Guidi che sta qui a Milano. Sua madre, Mrs. Eklund, è una delle nostre migliori supervisor e lui ne ha ereditate tutte le capacità. Sta arrivando, chiediamo scusa, ma ha questa mania di camminare…».
Mi sentii svenire, ma resistetti. Poi lui entrò, un bel sorriso riservato a tutti i presenti e un bagliore azzurro solo di sfuggita per me. Per tutto il tempo da quando era sceso dalla metro, avevo in sostanza continuato a fantasticare su un possibile intreccio romanzesco, un improbabile esito felice a seguito di un’affinità favorita dai numeri.
Ora che l’intreccio era diventato possibile, mi rifugiavo nella mia amata mente razionale, nella mia precisione senza svolazzi, dove la fantasia era esiliata e mi costringevo alla riflessione. Lui non era il principe azzurro, anche se ne aveva il colore degli occhi, lavorava con gli svedesi, era pagato da loro per analizzare, controllare e verificare il lavoro di tutti quelli come me: anellini insignificanti di una catena infinita.
Poi parlò come poteva fare un giudice che sentenzia dopo la camera di consiglio: «Ho controllato l’audit, fatto molto bene! Da chi? » Marzi alzò la mano come uno scolaretto e bofonchiò: «Io…, cioè… il mio staff».
«Bene – rispose Guidi – ma ora mi riferirei al primo report e vi voglio far presente che non ci siamo. Si evidenzia un ammanco che si trascina dai due report precedenti. La voce di riferimento è…».
Da quel momento in poi non udii più nulla. Come un ammanco? Come due audit fa? Non è possibile. Ho controllato e ricontrollato le voci e ora mi sento in colpa per qualcosa che non ho fatto. Ripresi l’ascolto di occhi azzurri che aveva però terminato e dato la parola a Mr. Lindgren: «È chiaro che non si tratta di un errore di chi ha stilato gli audit, ma è all’origine che qualcun altro ha cambiato le voci. E sappiamo anche chi. Da questo momento ritenetevi tutti sollevati dai vostri incarichi fino alle decisioni che prenderà la casa madre. Grazie signori, aspettate le nostre convocazioni».
Nello strepito prodotto dalle sedie spostate contemporaneamente, Mr. Lindgren aggiunse: «Un momento, c’è un’eccezione, la signora Leonardi rimarrà in forza e collaborerà con il signor Guidi per risolvere la faccenda. Dalle analisi svolte è l’unica persona in grado di dare un aiuto».
Dalle stelle alle stalle e ritorno nel giro di quattro minuti, mi sembrava di essere su di un ottovolante impazzito che mi stava conducendo nella stanza accanto insieme a occhi azzurri. Mi sono seduta e attaccata con le mani al bordo della scrivania, altrimenti avrei potuto prendere il volo, come le figurine leggere di Magritte o i fidanzatini di Peynet che si librano su quelle nuvole bianche sullo sfondo di un cielo così azzurro, ecco, quell’azzurro era proprio la tonalità esatta dei suoi occhi. 
Lui sorridendo mi ha detto: «Collega dei numeri, ci attendono ore e ore di lavoro, ma sarà solo un piacere e non un dovere, vero? ».
Ho annuito e pensato che questa giornata da “come il solito” sia diventata davvero particolare.

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